L’APPUNTAMENTO, audace e potente spettacolo dal bestseller d’esordio della scrittrice tedesca Katharina Volckmer. In scena al teatro Franco Parenti dal 3 all’11 aprile 2024.
Dal bestseller d’esordio della scrittrice tedesca Katharina Volckmer, arriva L’APPUNTAMENTO
L’APPUNTAMENTO, ossia la storia di un cazzo ebreo: audace e potente spettacolo dal bestseller d’esordio della scrittrice tedesca Katharina Volckmer. Una storia sul tema dell’identità, fisica, del corpo, del genere, ma anche culturale e politica.
Domina la scena Marta Pizzigallo che racconta, con la voce e con il corpo, il suo disagio emotivo ed esistenziale in una società senza speranza intrappolata dai troppi retaggi culturali.
Spudorata e aggressiva nel personaggio che si interroga sul suo gender, la protagonista rivendica una libertà che appare impossibile: quella degli ebrei al tempo del nazismo e quella di chi oggi vuole manifestare la propria identità sessuale.
Un flusso di coscienza torrenziale e provocatorio, ma anche atrocemente divertente e lucido che passa dalla confessione di fantasie sessuali legate a Hitler e al nazismo alla descrizione di incontri di sesso occasionale nei bagni pubblici, dalla deplorazione della pessima cucina tedesca all’impossibilità di sentirsi a proprio agio in un corpo di donna.
Torrenziale, provocatorio, a tratti insopportabile
Nata in Germania nel 1987, Katharina Volckmer ha scritto e pubblicato in inglese. A tal proposito afferma «Mi ha permesso di prendermi più libertà. Anche Freud se doveva dire qualcosa di sconveniente usava il francese».
Torrenziale, provocatorio, a tratti insopportabile ma anche atrocemente divertente, lucido e delirante allo stesso tempo, un testo che passa dalla confessione di fantasie sessuali legate a Hitler e al nazismo, alla descrizione di incontri di sesso occasionale nei bagni pubblici, dalla deplorazione della pessima cucina tedesca all’impossibilità di sentirsi a proprio agio in un corpo di donna.
L’appuntamento è un monologo sull’identità tutt’altro che consolatorio: la voce narrante non sa dove sta andando, non segue un arco che dall’autocoscienza la porterà a un lieto fine, a un dipanamento del suo groviglio.
La femmina tedesca
Sa solo che deve continuare a frantumare, a fare a pezzi sempre più piccoli la propria identità di femmina e di tedesca. Sia Volckmer che il suo personaggio hanno una sola priorità: rompere il silenzio.
E il silenzio dell’analista è il muro contro cui testardamente, dolorosamente, la protagonista continua a sbattere la testa.
Quella che i tedeschi chiamano Vergangenheitsbewältigung (“superamento del passato”) si è trasformata in un vuoto plumbeo: il passato nazista è stato semplicemente rimosso in nome di un antirazzismo untuoso e di facciata che smussa o nega qualunque differenza: «trenta bambini tedeschi e neanche un ebreo in lontananza», ricorda la protagonista, «e noi cantavamo in ebraico per assicurarci di restare denazificati e profondamente riguardosi.
Ma non siamo mai stati in lutto, semmai ci comportavamo assecondando una nuova versione di noi stessi – istericamente non razzisti in qualunque circostanza, e pronti a negare qualsiasi differenza. (…) Eppure non abbiamo mai restituito agli ebrei lo status di esseri umani né abbiamo permesso che interferissero con la nostra interpretazione della storia, fino ad arrivare a quel triste cumulo di pietre che è stato messo a Berlino a commemorare l’Olocausto».
La messa in discussione della propria appartenenza alla cultura tedesca diventa anche una radicale messa in discussione del proprio essere nata femmina: «una volta imparato a pensare con la mia testa, ho cominciato ad andare nei bagni dei maschi», spiega all’analista. E il cesso pubblico diventa per lei, in un comico ribaltamento delle polemiche statunitensi sull’utilizzo dei bagni femminili per le persone trans, un luogo di scoperta di sé.
Regia di Fabio Cherstich
Il regista Fabio Cherstich ha creato lo spettacolo con la collaborazione della stessa Katharina Volckmer: «la donna e il dottor Seligman sono all’interno di uno spazio mentale» spiega nelle sue note di regia: «non lo studio di un medico ma un dispositivo visivo in cui attraverso l’utilizzo di lenti traslucide, vetri opalescenti, filtri fotografici, il corpo della protagonista e la sua immagine appaiono al pubblico in una forma mutevole e continuamente trasformabile, fluida e misteriosa».
Cherstich quindi, alla dimensione della parola ha aggiunto quella visiva, per rendere plastica l’esigenza della protagonista di trasformarsi, di diventare altro da sé, di lasciarsi alle spalle quella che era. Ha in mente l’arte sporca, umorale e confessionale dell’artista britannica Tracey Emin, il cui flusso di coscienza visivo è costellato di Kleenex appallottolati, di letti disfatti, di preservativi usati, di scarabocchi fatti soprappensiero.
O le performance medico-rituali dell’artista francese ORLAN, che ha fatto della chirurgia estetica estrema la sua poetica. Cherstich non vuole solo farci sentire la voce della protagonista ma vuole anche farci vedere cosa si sta affastellando e formando nella sua immaginazione: ci chiede di diventare testimoni di un processo di distruzione di sé che è anche un inno alla complessità e alla fluidità di quello che siamo, di quello che potremmo osare essere e di quello che saremo: «Facciamoci oro, dottor Seligman. Cambiamo forma nei secoli, ma senza scomparire».
L’appuntamento ossia la storia di un cazzo ebreo, in scena dal 3 all’11 aprile in Sala A.